E’ scomparso Piero Terracina, 91 anni, uno dei testimoni italiani scampati allo sterminio dei campi di concentramento.
Ci ha lasciato un “gigante” che ha trascorso la vita nelle scuole, in giro per l’Italia, a seminare memoria tra i giovani, che aveva scelto talvolta anche di accompagnare ad Auschwitz, un luogo da lui definito inferno. Ci ha offerto i suoi ricordi, quelli di una giovane vita spezzata, e ci ha donato le sue lacrime con un solo scopo: impedire l’oblio sulla più grande delle tragedie umane, la Shoah, ovvero lo sterminio di milioni di ebrei, affinché tutto l’odio e il dolore che aveva visto non avesse alcuna possibilità di tornare.
Piero Terracina, classe 1928, romano di Trastevere, fu uno dei primi a decidere di raccontare la dolorosa esperienza di deportato, il peccato dell’indifferenza e la banalità del male. Al rientro in Italia da Auschwitz, anche lui tacque, perché, come i suoi compagni di sventura, temeva di non essere creduto. L’orrore da raccontare era così grande e il ricordo così straziante che le persone stentavano a credergli. Qualcuno, racconta Terracina, mostrava un senso di fastidio.
Nell’autunno del 1938, a causa delle leggi razziali, Piero, come tutti gli alunni e i docenti ebrei, fu espulso dalla scuola pubblica e proseguì gli studi nelle scuole ebraiche. Sfuggì al rastrellamento del Ghetto il 16 ottobre 1943, ma venne arrestato il 7 aprile 1944, su segnalazione di un delatore, con tutta la famiglia e detenuto nel carcere di Regina Coeli, a Roma. Infine il 17 maggio del 1944 fu deportato. Ma leggiamo il suo racconto: “Dopo una breve permanenza nel campo di Fossoli, a 26 km da Modena, ci misero in sessantaquattro in un vagone. Fu un viaggio allucinante, tutti piangevano, i lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva intervenire, sarebbe bastato uno sguardo di pietà. Le SS sorvegliavano il convoglio. Viaggiavamo nei nostri escrementi: Fossoli, Monaco di Baviera, Birkenau-Auschwitz. Arrivammo dentro il campo di concentramento, dalle fessure vedevamo le SS con i bastoni e i cani. Scendemmo, ci picchiarono, ci divisero. Formammo due file, andai alla ricerca dei miei fratelli, di mia madre, noi non capivamo, lei sì: mi benedì alla maniera ebraica, mi abbracciò e disse “andate”. Non l’ho più rivista. Mio padre, intanto, andava verso la camera a gas con mio nonno. Si girava, mi guardava, salutava, alzava il braccio. Noi arrivammo alla “sauna”, ci spogliarono e ci tagliarono i capelli. Ci diedero un numero di matricola. “Dove sono i miei genitori?”, chiesi a un altro sventurato. E lui rispose: “Vedi quel fumo del camino? Sono usciti da lì.
Ad Auschwitz il prigioniero non aveva nome, gli internati non erano contati come persone ma come pezzi. Ai prigionieri veniva tolta ogni dignità. Di quelli usciti dal campo vivi, pochissimi sono riusciti a sopravvivere e a tornare a essere persone degne di essere chiamate tali. L’efficiente macchina bellica tedesca non sprecava nulla. Anche dopo la morte tutto veniva usato e riciclato, anche la pelle e i capelli dei deportati.
Quando fummo liberati, pesavo trentotto chili. Io camminavo, ma erano tanti quelli che non si tenevano in piedi. Dopo un po’ crollai e fui portato dai russi in un ospedale militare. In seguito mi trasferirono all’ospedale di Leopoli. Lì ripresi a piangere e fui consapevole di quello che era stato perpetrato da persone normali ai nostri danni. Dopo qualche tempo fui mandato in un sanatorio sul mar Nero. Lì ripresi ad avere amicizie, lì sono nati alcuni affetti come quell’infermiera che mi curò. Sono rientrato in Italia dopo un anno. Fu in Unione Sovietica che ripresi a vivere… ricordo ancora oggi la mia prima partita a pallone.
Gli artefici della mia resurrezione sono stati gli amici, senza di loro non so se ce l’avrei fatta… – prosegue Piero Terracina -, Con loro e con i miei parenti per molti anni non ho parlato di quello che mi era accaduto. Temevo soprattutto che mi chiedessero come mi ero salvato. Mi terrorizzava il fatto che qualcuno potesse chiedermi “Perché tu ti sei salvato e mio figlio o mio marito no?”. Poi pensavo che se avessi parlato di certe cose a molta gente avrebbe dato fastidio, o quantomeno qualcuno avrebbe pensato: “Che va dicendo, non è possibile”; inoltre raccontare del lager avrebbe significato in parte rivivere quelle situazioni ed io volevo sembrare una persona come tutte le altre, non dico “essere” ma almeno “sembrare”. E così è andata: di giorno cercavo di fare una vita più normale possibile e di notte molto spesso mi ritrovavo a fare i conti con il mio passato nel lager. Sognavo continuamente di Auschwitz, era una specie di doppia vita.
La Shoah non è solo colpa della Germania. Anche altri governi furono carnefici di questo male. Il governo francese dopo l’armistizio consegnò tanti ebrei ai nazisti. Eppure in altri paesi come la Danimarca questo non successe. Il Re si oppose alla deportazione. Si mise anche lui la stella che contrassegnava gli ebrei, fece pressioni sul popolo e questo bloccò la deportazione degli ebrei danesi. Perché questo in Italia non accadde? Anche in Bulgaria gli ebrei furono salvati dallo sterminio. Perché questo in Italia non accadde? Se qualcuno che poteva si fosse opposto non ci sarebbe stata nessuna deportazione. In Italia gli ebrei sono presenti da circa 2.300 anni. Eppure questa civiltà fu negata”, conclude Terracina, “agli ebrei era vietato non solo avere ma anche essere”. “
Considerate se questo è un uomo voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici”, scrisse Primo Levi, uno dei superstiti di Auschwitz che assieme a Piero Terracina lottò per mantenere viva la sua umanità in un luogo di indicibile dolore e di morte.
Giuseppe Manzo